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E.T. l’extra-terrestre, l’alieno pensato da Spielberg fu interpretato da due nani (e da un ragazzino disabile)

Era il 1982 e Steven Spielberg portò nelle sale cinematografiche (o cinematografò, per gli intenditori) “E.T. l’extra-terrestre”, un film di fantascienza che mescolava infanzia e malinconia con una regia sorprendentemente misurata, molto più “family friendly” rispetto all’ambientazione cupa e misteriosa del suo ultimo lavoro, ovvero “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. La pellicola nasce da un’idea di Spielberg maturata dopo il divorzio dei genitori, e (come tutti sanno) è incentrata sul rapporto tra un ragazzino e una creatura extraterrestre abbandonata sulla Terra.

Scritto da Melissa Mathison (già collaboratrice di Francis Ford Coppola), E.T. fu uno di quei progetti che poteva nemmeeno vedere la luce. Inizialmente rifiutato dalla Columbia Pictures, viene preso in considerazione dalla Universal poco più tardi che ne intuì il potenziale e lo produsse con un budget relativamente contenuto per l’epoca: 10,5 milioni di dollari. Soli 3 mesi di riprese (da settembre a dicembre del 1981) sono bastate per un film che ha fatto la storia del cinema ( e dei botteghini).

Il motivo di tanto successo è stato sicuramente l’introduzione del personaggio dell’alieno. Il personaggio di E.T. rappresentava una sfida tecnica piuttosto ostica per l’epoca. Spielberg affidò il compito di costruire il modello dell’alieno al nostro maestro italiano Carlo Rambaldi, già autore degli alieni in Incontri ravvicinati. Rambaldi creò tre modelli principali dell’extraterrestre: uno meccanico a grandezza naturale con 87 punti di movimento (di cui 10 solo sul volto), uno radiocomandato per i primi piani e un costume indossabile per le scene in movimento. Piccola curiosità: il volto di E.T. è stato ispirato a figure umane reali: Carl Sandburg, Albert Einstein ed Ernest Hemingway. I materiali usati includevano fibra di vetro, gomma e poliuretano, montati su uno scheletro metallico. Persino le luci di scena furono studiate per rendere il marrone spento della pelle dell’alieno più “vivo” sullo schermo e le espressioni facciali erano gestite da un team di dieci operatori o poco più. Per la voce, dopo vari provini, si optò per quella roca e inconfondibile di Pat Welsh, una donna della California che fumava due pacchetti di sigarette al giorno (nella versione originale, in quella italiana è stato doppiato da Elsa Camarda).

Per le sequenze in cui E.T. si muoveva sul set a figura intera (troppo complesse per i meccanismi e troppo “fisiche” per l’animatronica) si ricorse a tre interpreti umani. Non attori tradizionali, ma individui scelti per la loro specifica fisicità, necessaria a “riempire” il corpo dell’alieno in movimento.

Tamara De Treaux era un’attrice statunitense affetta da nanismo, alta circa 79 cm e la sua struttura minuta la rendeva ideale per le scene in cui E.T. doveva muoversi lentamente, con piccoli gesti.

Pat Bilon, anch’egli affetto da nanismo, si alternava con De Treaux per le sequenze camminate, portando un movimento leggermente diverso, utile per diversificare le posture dell’alieno.

Matthew De Meritt, un ragazzo dodicenne nato senza gambe, fu impiegato per le scene in cui E.T. doveva muoversi “strisciando” o apparire con una mobilità diversa dal cammino bipede. De Meritt si muoveva esclusivamente con le braccia all’interno del costume.

L’uso combinato di questi tre ragazzi (supportato dal lavoro mimico di Caprice Roth per le mani) permise a Spielberg di realizzare un personaggio “vivo” senza ricorrere a effetti visivi digitali, allora ancora rudimentali. La coerenza tra le varie versioni di E.T. fu raggiunta attraverso un montaggio incredibilmente attento ad ogni dettaglio e un preciso lavoro di regia sulla continuità dei movimenti che lo ha reso il capolavoro senza tempo che tutti ricordiamo.

Mario Barba

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