Le confessioni del Roberto Vecchioni neo-ottantenne e la genesi di ‘Luci a San Siro’ e ‘Samarcanda’

Le sagge parole di Roberto Vecchioni a 80 anni sulla vita, la senilità, la gioventù e sulla genesi di due delle sue canzoni più famose.

Compie quest’oggi 82 anni Roberto Vecchioni, grandissimo della musica italiana. Attendevamo questa data per poter rilanciare un’intervista di un paio d’anni fa in cui si raccontava a 360°. Le sue parole ci avevano colpito ma non capivamo come e quando riproporle e così ci riproponevamo di attendere un 25 giugno qualsiasi (giorno del suo genetliaco) per poterne scrivere. Il caso ha voluto che questo 25 giugno me ne sia ricordato ed eccoci qui, a riproporre le parole del cantautore di Carate Brianza, vincitore di Sanremo 2011.

Sono le riflessioni di un uomo colto la cui età inesorabilmente avanza, con conseguente aumento della saggezza e della tempra (rafforzata anche da un tremendo dramma personale, la morte di un figlio).

Non ricordo la fonte dell’intervista (credo fosse il Corriere, per certo le parole furono rilanciate da Dagospia) ma mi permetto comunque di riproporla, ritenendo le parole del Professore di assoluto valore, sebbene negli ultimi tempi non abbia condiviso alcune uscite in merito alle vicende internazionali.

Tra le tante riflessioni interessanti, interessanti i retroscena sulla genesi di due suoi grandi successi come ‘Luci a San Siro’ e ‘Samarcanda’.

Partiamo dall’età che avanza, dagli 80 anni di allora (oggi 82, come detto): “Penso che gli ottant’anni non siano tanto diversi da altre età. Il tempo ha due dimensioni: una fisica, che ci logora e ci opprime, come una montagna da scalare ogni giorno, e una interiore, che invece non invecchia, ma evolve. Henri Bergson direbbe che questo è il tempo della coscienza, un flusso continuo che non si riduce, anzi si amplia con ogni esperienza. È un’età in cui impari a custodire e assaporare il tuo tempo, a viverlo con consapevolezza. La parte fisica della vita può essere influenzata dal destino, ma nella sfera interiore è sempre il libero arbitrio a prevalere, la scelta consapevole di come essere e agire”.

Sul riuscire a realizzare i sogni (o meno, laddove probabilmente i sogni in realtà non si realizzano mai): “Dei sogni che avevo da giovane, nessuno si è avverato del tutto. Si sono realizzati a pezzi, interrotti e poi ricostruiti. La vita è così: un ciclo continuo, come le stagioni o le settimane che iniziano sempre con un lunedì. Non c’è un traguardo definitivo, ed è questo che permette di mantenere vivi i sogni, realizzandoli un po’ alla volta o accontentandosi di ciò che si è riusciti a fare”.

Sugli errori commessi nell’arco degli anni: “Ho commesso tanti errori, anche gravi. C’è chi dice che rifarebbe tutto, ma non è vero: scegliendo diversamente, sbagli comunque. La vita è fatta di errori, salti, cadute. Molti miei sbagli hanno avuto un impatto sugli affetti, mai sulle cose materiali. Non mi importa nulla di vittorie come Sanremo: ciò che pesa sono gli affetti non compresi o trascurati. Ho perso amici per comportamenti stupidi o arroganti, e alcuni non li ho più ritrovati. Gli errori più grandi si fanno sempre con le persone”.

Tanti gli aspetti interessanti sulla sua carriera e sulla musica (dagli esordi alla vittoria di Sanremo), ma in questa sede vogliamo riportare il racconto della genesi di due dei suoi più grandi successi ‘Luci a San Siro’ e ‘Samarcanda’: ““Luci a San Siro” è un brano che è venuto fuori dall’anima, quasi senza pensarci. “Samarcanda”, invece, nacque durante un viaggio in auto tra Milano e Bologna, dopo la morte di mio padre. Scrissi la storia del servo e della morte, ispirandomi a una leggenda araba, ma mi mancava un elemento. A un semaforo, durante il tragitto, un uomo frenò bruscamente e io urlai: “Oh, coglione!”. Quell’urlo divenne “Oh, cavallo”, completando la canzone“.

Sulla perdita del figlio Arrigo, scomparso a 36 anni a causa di una brutta malattia: “La sua morte è stata una cesura tra due vite, soprattutto per mia moglie. Non l’ho mai vissuta come un’ingiustizia: Eschilo diceva che si impara soffrendo, e forse è vero. Dal dolore si può imparare più che dalla felicità. Arrigo era una persona sensibile, ma le sue fragilità lo rendevano insicuro. Quando era in terapia, percorrevamo insieme una strada piena di autovelox: io gli dicevo quando rallentare. Era come la vita, una corsa continua con momenti in cui dovevi fermarti. Alla fine mi disse: “Li abbiamo fregati tutti, papà”. E invece no, uno ci aveva preso. Quella è stata la sua morte: gli autovelox della vita”.

Infine, per chiudere (e strettamente collegato al dramma vissuto), una battuta sul mistero dell’amore paterno: “L’amore per un figlio è qualcosa di incomprensibile, quasi incosciente. Non capisci sempre ciò che fa, ma sai che devi amarlo. Sempre”.


Clicca qui per seguire NonSolo.TV su Instagram
Clicca qui per seguire NonSolo.TV su Google News