Ci sono storie che diventano leggenda perché sono belle, ma perché fanno male. La vicenda di Hachik? rientra in questa categoria: non un racconto edificante, non una favola sulla fedeltà, ma una lunga sequenza di assenze, attese e mancati happy end (perché la vita non è un film, qualcuno ci ricorderebbe, sebbene da questa vicenda abbiano tratto molteplici film). Tutto inizia con una morte improvvisa e prosegue con un’altra, più lenta, consumata giorno dopo giorno davanti a una stazione ferroviaria.
Il 21 maggio 1925 il professor Hidesaburo Ueno muore all’improvviso, stroncato da un aneurisma cerebrale. Non torna a casa, non scende dal treno nel tardo pomeriggio come sempre. Hachiko lo aspetta comunque. Lo fa quel giorno, il giorno dopo e poi ancora. Non perché “capisca” la morte, ma perché non ha modo di accettarla. Per quasi dieci anni quel cane si presenta alla stazione di Shibuya con la stessa puntualità con cui, prima, accompagnava il padrone al lavoro. È una fedeltà che non ha nulla di eroico: è un’abitudine che diventa destino, che diventa il simulacro di un abbandono.
Nel frattempo la vita intorno va avanti, spesso con indifferenza. Hachiko viene trattato come un randagio, scacciato, colpito, catturato dagli accalappiacani. Passa attraverso malattie, fame, solitudine. La sua figura diventa nota solo quando qualcuno inizia a essere raccontata dai giornali, come sempre alla ricerca di sensazione o di vicende strappalacrime. Prima di allora, è semplicemente un cane che aspetta qualcuno che non tornerà.
La fine è coerente con tutto il resto. All’inizio di marzo del 1935 Hachiko si ammala gravemente. Smette di mangiare, il suo corpo si gonfia per l’ascite, vomita. Muore l’8 marzo, a undici anni, per filariasi. Viene trovato all’alba, con la testa rivolta verso est, in direzione del cimitero dove è sepolto Ueno. Non c’è redenzione, non c’è ricongiungimento visibile. Solo una coerenza estrema fino all’ultimo respiro.
Film, libri, razza e nome: cosa resta oggi di Hachiko
Negli anni, questa storia è stata trasformata in racconto collettivo. Il cinema l’ha resa più morbida, la letteratura l’ha adattata anche ai bambini, ma il nucleo resta sempre lo stesso. Nel 1987 il Giappone racconta Hachiko con Hachiko Monogatari, mentre nel 2009 arriva il remake occidentale, Hachiko – Il tuo migliore amico, che sposta l’ambientazione ma non il senso profondo della perdita. Sono opere che hanno contribuito a fissare l’immagine del “cane fedele”, spesso attenuando la durezza della sua vita reale.
Hachiko era un Akita Inu, razza giapponese di grandi dimensioni, oggi molto ricercata e costosa: in Europa un cucciolo con pedigree può superare facilmente i 2.000–3.000 euro, a seconda della linea di sangue e dell’allevamento. Un dettaglio che stride con l’esistenza concreta di Hachiko, vissuta in strada, tra stenti e rifiuti.
Anche il nome, spesso trattato come simbolico, è più semplice di quanto si creda. “Hachi” significa “otto”, numero considerato di buon auspicio in Giappone. Il suffisso “ko” è un vezzeggiativo, una forma di rispetto affettuoso. Non c’è certezza assoluta sul perché Ueno abbia scelto proprio quel nome, ma l’ipotesi più accreditata è che seguisse una logica numerica già usata per altri cani allevati in precedenza (e a maggior ragione, quindi, questo cane era poco più di un numero).
Oggi restano una statua, una cerimonia annuale, un’uscita della stazione che porta il suo nome. Ma soprattutto resta una storia che, se raccontata senza filtri, parla meno di fedeltà e più di solitudine.
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