La televisione trash non ha solo intrattenuto l’Italia: ha cambiato il modo in cui votiamo

Per molto tempo l’abbiamo considerata un sottofondo, a volte letteralmente. Qualcosa che riempiva le ore vuote, che teneva compagnia (a noi e ancor più alle casalinghe di Voghera), che non lasciava traccia. La televisione trash è stata archiviata così: innocua, al massimo un po’ imbarazzante. E invece no. Col senno di poi, appare sempre più chiaro che non ha solo intrattenuto l’Italia: l’ha formata – lentamente, in profondità, senza quasi farsi notare.

Gli anni ’80 e il cambio di paradigma (con la nascita della futura Mediaset)

Il punto di svolta arriva negli anni Ottanta, quando il monopolio della RAI viene incrinato dall’irruzione delle televisioni commerciali. Non è una semplice alternativa di palinsesto: è un cambio di paradigma. Da una parte una televisione che, con tutti i suoi limiti, continuava a tenere insieme informazione, educazione e intrattenimento “alto” (in seguito dovrà prendere a rincorrere la concorrenza). Dall’altra un modello che punta deciso sulla quantità, sulla leggerezza, sulla ripetizione.

Quel modello prende forma compiuta con Mediaset (che assume questo nome nel dicembre del 1993), capace in pochi anni di coprire quasi tutto il territorio nazionale grazie a escamotage tecnici geniali che non stiamo qui a ricordare. Film, cartoni animati, varietà, sport, soap opera. Pochissimo spazio per contenuti educativi, quasi nullo per l’approfondimento. Non ideologia, non propaganda: solo intrattenimento continuo, strass e paillette.

Ed è proprio questo il punto più interessante. Gli effetti politici di quella televisione non passano dai messaggi espliciti, ma dal tempo sottratto ad altro. Ogni ora davanti allo schermo è un’ora in meno passata a leggere, a giocare fuori, a confrontarsi, a sviluppare strumenti cognitivi più complessi. È una dinamica che è stata misurata con metodo quasi sperimentale da uno studio pubblicato sull’American Economic Review, che ha analizzato gli effetti di lungo periodo dell’esposizione precoce alla televisione commerciale.

Sfruttando le differenze territoriali nella diffusione iniziale del segnale, alcuni economisti hanno potuto confrontare comuni simili, ma esposti per periodi diversi alla televisione generalista. In particolare, il lavoro di Ruben Durante, Paolo Pinotti e Andrea Tesei utilizza i dati storici dei trasmettitori per isolare l’effetto causale di “qualche anno in più” di televisione leggera nella fase formativa della popolazione.

I risultati parlano chiaro: dove l’esposizione è stata più lunga e precoce, negli anni successivi si registra un aumento significativo del consenso verso forze politiche populiste. Un effetto che emerge a distanza di tempo, quando la televisione non è più solo intrattenimento ma diventa una delle lenti attraverso cui si interpreta il mondo (sebbene poco alla volta le lenti diventano altre).

Il berlusconismo oltre Berlusconi

Non si tratta solo di Silvio Berlusconi, creatore del sistema televisivo che per primo ne ha beneficiato sotto ogni punto di vista (con il berlusconismo che è andato oltre il fenomeno politico: sottoposti per anni ai suoi contenuti il berlusconismo è entrato dentro di noi).

Il dato più rilevante è che l’effetto resta anche quando Berlusconi esce di scena e favorisce movimenti diversi ma accomunati da un linguaggio semplice, diretto, anti-establishment, come il Movimento 5 Stelle. A ben vedere, però, il fenomeno è più ampio: pressoché tutti i partiti e i loro leader hanno progressivamente abbassato il livello della comunicazione, venendo incontro – o forse adattandosi – a facoltà critiche sempre più fragili (“Per venire incontro alle vostre facoltà mentali” – cit.). Non è una questione di leader, ma di terreno culturale, reso più fertile da anni di consumo di contenuti a bassa complessità.

Le fasce più colpite sono due: chi ha guardato quella televisione da bambino e chi l’ha assorbita in età avanzata. I primi crescono, in media, con competenze cognitive più basse e un minore coinvolgimento civico, come mostrano i risultati nei test standardizzati somministrati negli anni successivi. I secondi sviluppano una maggiore dipendenza dal mezzo televisivo e una maggiore esposizione a narrazioni semplificate anche quando arrivano i notiziari, soprattutto nel momento in cui la televisione commerciale entra apertamente nel campo dell’informazione.

Tutto il Mondo è Paese: parliamo di Un fenomeno globale

Non è un’anomalia tutta italiana. Studi analoghi condotti in altri Paesi mostrano dinamiche simili. Un’analisi condotta da Benjamin Olken, pubblicata sull’American Economic Journal: Applied Economics, collega l’espansione della televisione in Indonesia a una riduzione della partecipazione civica e del capitale sociale, indipendentemente dai contenuti politici espliciti. Più di recente, diverse review internazionali hanno spostato l’attenzione dal singolo messaggio al concetto di attenzione: non cosa guardiamo, ma per quanto tempo e con quale sforzo cognitivo.

Non è una questione di nostalgia né di moralismo. È una questione di effetti misurabili, che emergono solo col tempo. E forse è proprio questo l’aspetto più inquietante: il danno non si vede subito. Si deposita.

E se questi sono gli effetti della televisione trash, non osiamo pensare – permetteteci di essere apocalittici un minimo – quali potranno essere gli effetti dei brain rot sulle scelte di voto (o di non voto) dei giovanissimi, futuri adulti. Perché votare è bello, ed è giusto votare chiunque si ritenga sia giusto votare. Il problema è il senso critico che scompare. E il fatto che i partiti, su questo, ci pasteggiano.ò


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