NonSolo.TV intervista Luigi Abramo sull’incredibile storia di Geoff Emerick, tecnico del suono dei Beatles

“Registrando i Beatles (Here, There and Everywhere)” – edito da Coniglio Editore – ci porta a conoscere l’incredibile storia di Geoff Emerick, tecnico del suono dei Beatles dal 1965 sino allo scioglimento del band e che contribuì in maniera decisiva alla costruzione di album come Revolver, Abbey Road e Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Un viaggio nella sua vita, a metà tra gli studi di Abbey Road e la storia dei Fab4, tra amicizie, aneddoti e tensioni raccontante in questa intervista da colui che con grande passione e professionalità ha avuto il piacere di tradurre.

D: L’avvicinamento di Emerick a diventare il fonico dei Beatles è figlio anche della sua capacità e amore per tutte le arti. Dapprima si avvicina alla musica con il giradischi, poi la radio e successivamente rimane folgorato dall’incontro con il mixer e registratore a nastro. Poi l’incontro con il signor Barlow e la EMI. Un incrocio perfetto sulla strada del destino potremmo dire, giusto?

R: In effetti leggendo il racconto di Emerick su quella parte della propria vita si ha la sensazione che tutto si allinei perfettamente sulla scacchiera del destino, ancor di più quando, pochi anni più tardi, Norman Smith – fino a quel momento unico fonico dei Beatles e artefice tecnico dei loro primi, enormi successi – decide di abbandonare la poltrona più ambita nel mondo degli studi di registrazione che, per estrema sorpresa dell’ancora giovanissimo Geoff, verrà offerta proprio a lui. Ma credo che sarebbe ingiusto dare alla fortuna il ruolo principale di quella veloce e vertiginosa ascesa: sebbene sia innegabile l’incastro di posto e momento favorevoli, il merito principale va senza dubbio assegnato alla mai doma passione di Emerick per la musica registrata e le potenzialità della manipolazione del suono. Fu proprio la voglia sempre crescente (e spesso rischiosa, in quei tempi di rigidi protocolli da studio) di travalicare i confini conosciuti e le convenzioni che lo accomunò con i “quattro ragazzi di Liverpool” e la sua conseguente capacità di concretizzare tecnicamente i loro desideri, attraverso colpi di genio e invenzioni sperimentali, a generare gli storici risultati dei quali ancora oggi godiamo.

D: Inizialmente Emerick viene citato come “schiaccia-bottoni”. Che ambiente era quello della EMI in quegli anni?

R Come accennavo prima, gli studi della EMI (oggi noti a tutti come Abbey Road Sudios, nomignolo nato solo dopo la pubblicazione dell’omonimo album dei Beatles) non erano l’ambiente che un giovane appassionato di musica si aspetterebbe oggi. La musica pop e rock era arrivata relativamente da poco, la figura della rockstar (di cui proprio i Fab 4 rappresenteranno la prima incarnazione) non esisteva ancora e quegli ambienti si consideravano il tempio della musica classica; tutto il personale doveva indossare il camice bianco – o marrone, per i manutentori e gli addetti alle pulizie – e osservare un ferreo regolamento, sia comportamentale che tecnico. Credo che entrandoci si avesse più la sensazione di essere in un freddo laboratorio che in quello che, di lì a poco per merito dei Beatles, sarebbe diventato il primo di tanti centri nevralgici della libertà creativa, la sperimentazione e della musica come strumento per cambiare il mondo.Oggi ci diverte leggere gli aneddoti narrati da Emerick nei quali, mentre prova a mettere in atto una nuova idea agendo sulla strumentazione di studio o sui volumi, prega di non essere visto da un supervisore! A quel tempo per una lancetta che andava sul rosso si rischiava seriamente il licenziamento.

D: Nel 1963 poi scoppia la Beatlemania “figlia” del primo album della band “Please Please Me”. E in quel tempo, viene escogitato il nome The Dakotas per “mascherare le session” dall’assedio delle fans. I Beatles erano consapevoli che in atto c’era un autentica “rivoluzione” che li porterà ad essere un fenomeno di massa mondiale?
R: Ti rispondo serenamente di no. Sebbene il periodo da te citato rappresentasse un primo assaggio di quell’adorazione che arriverà a livelli impensabili, la vera Beatlemania sarà sancita solo qualche tempo dopo, con il successo in America; ma anche allora, nonostante le folle deliranti che li attendevano negli aeroporti e le manifestazioni di amore soffocante da parte dei fans, Lennon e soci non potevano assolutamente immaginare che in un futuro non molto lontano la loro influenza sui giovani avrebbe travalicato i confini della musica fino a guidare cambiamenti nel pensiero, nella moda e nella cultura. Come dicevo, anche in questo furono i primi, quindi in quel momento si consideravano niente di più che degli intrattenitori e si godevano quel vento favorevole pensando che, nel migliore dei casi, sarebbe potuto durare qualche anno. Dopodiché, come possiamo leggere nelle loro dichiarazioni dell’epoca, sarebbero tornati nell’anonimato e a lavori più consueti. Pensare che siamo qui a parlarne sessant’anni dopo come un fenomeno unico ed irripetibile ci fa comprendere la misura del loro contributo alla cultura popolare.

D: Artisticamente e musicalmente, quanto fu “rivoluzionario” l’uso del Mellotron da parte dei Beatles?

R: Anche in questo caso, torno a parlare dell’ingrediente più importante – dando per scontato, naturalmente, l’inarrivabile genio compositivo – della formula che portò i Beatles ai livelli che conosciamo, ovvero un’avidità continua per le novità e l’ossessione di creare sempre qualcosa che non somigliasse ai lavori precedenti. A questa sete mai sopita per l’inedito dobbiamo moltissime “prime volte” presenti negli album dei Fabs: insieme al mellotron, il suono che identifichiamo istintivamente con Strawberry Fields Forever, citerei almeno il moog, fondamentale elemento delle session di Abbey Road, e ancor prima il sitar, che, grazie alla passione di George Harrison per la cultura indiana, è il primo strumento esotico ad apparire in un disco pop occidentale, con l’esordio in Norwegian Wood nell’album Rubber Soul.

D: Un momento di sgomento nella carriera artistica dei Beatles, fu la scomparsa di Brian Epstein. Come si può “fotografare” la sua figura all’interno del gruppo?

R: A Brian Epstein, non dobbiamo mai dimenticarlo, si deve l’esistenza dei Beatles. Fu la sua curiosità a guidarlo fino a loro, il suo fiuto a comprenderne le potenzialità e il suo lavoro insistente – nonostante un considerevole numero di delusioni e di rifiuti incassati da diversi responsabili di etichette discografiche – a procurar loro un contratto. Brian diede loro un’immagine, li guidò nei comportamenti e ne fece un successo internazionale; di certo, dopo la decisione del gruppo di sospendere i concerti dal vivo e concentrarsi esclusivamente sul lavoro di studio, il suo apporto diminuì considerevolmente nella vita artistica dei Beatles. Questo imprevisto senso di vuoto andò ad aumentare le sue fragilità di essere umano, le difficoltà quotidiane di un ebreo omosessuale nella Gran Bretagna degli anni sessanta, portandolo a una fine tragica a soli 32 anni. I Beatles ne furono devastati, nonostante l’autonomia raggiunta, e la mancanza di una guida stimata e riconosciuta da tutti loro finì per diventare il primo grande squilibrio sulla strada della dissoluzione della band.

D: Che influenza ebbe su Geoff, quello che viene riconosciuto come il più grande dischi rock di tutti i tempi “Stg.Peppers Lonely Heart Club Band”?

R: Innanzitutto rovescerei il quesito, ovvero che influenza ebbe Geoff sulla creazione di Sgt. Pepper. Come dice anche Elvis Costello nella sua bellissima prefazione al libro, il nome di Emerick avrebbe dovuto figurare accanto a quello di George Martin per la produzione dell’album, e io sono d’accordo. Paradossalmente, erano tempi diversi, nei quali le note di copertina praticamente non esistevano e sul disco il suo contributo non risulta affatto. Questo per fortuna non gli impedì di vincere il Grammy come miglior ingegnere del suono di quell’anno, il massimo riconoscimento per la sua categoria. E di sicuro non c’è da stupirsene: quel viaggio coloratissimo, psichedelico, dirompente e tecnicamente inappuntabile (soprattutto pensando a quelli che oggi ci appaiono i limitatissimi strumenti a disposizione) si deve al genio appassionato di Emerick, che fece in modo – a volte in maniera rocambolesca e sorprendente – che le idee degli autori si trasformassero in materia sonora e approdassero sul vinile. Certamente, da allora in poi, essere “il fonico di Sgt. Pepper” fu l’appellativo col quale fu maggiormente ricordato.

D: Il volume si sofferma anche su la parte di carriera di Paul McCartney con i Wings. Che focus merita questo passaggio?

R: È naturale e comprensibile che l’appeal principale di un volume del genere, per l’appassionato, sia rappresentato dai racconti di un testimone diretto del quotidiano della più grande band di tutti i tempi. Ma la narrazione dell’epopea di Band On The Run, capolavoro forse ineguagliato del McCartney solista è altrettanto entusiasmante. La controversa decisione di registrare in Africa, la defezione di metà del gruppo alla vigilia della partenza, le difficoltà estreme per l’inadeguatezza degli studi, una spaventosa rapina nella quale vanno perduti gli appunti delle canzoni, gli scontri imprevedibili con la cultura locale e, nonostante tutto questo, quello straordinario risultato finale, sono materia di leggenda. Non c’è lettore che non ne resterà colpito.

D: In chiusura del volume lo stesso Geoff dice aver contribuito anche lui ad aver portato i Beatles sulla cima. In che percentuale secondo lei?

R: I testimoni che parlano di Emerick ci raccontano di un uomo schivo ed estremamente umile, consapevole della grande avventura che la vita gli aveva regalato. Sarebbe però impensabile supporre che non fosse conscio del suo contributo alla parabola artistica dei Beatles. Misurarlo è impresa pressoché impossibile, ma la mia opinione è questa: godiamo incessantemente da 60 anni di capolavori che non ci stancano mai, anzi non smettono di sorprenderci quasi ad ogni ascolto. Senza Geoff, il risultato sarebbe stato quantomeno diverso. Io dico che si merita un nostro lungo applauso.

Sergio Cimmino


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