Gianni Berengo Gardin, uno dei più grandi maestri della fotografia italiana del Novecento, è morto la sera di mercoledì 6 agosto 2025 all’età di 94 anni. La notizia è stata confermata dalla figlia al «Corriere della Sera». Gardin seppe restituire con la sua Leica al collo e lo sguardo rivolto alle persone l’identità sociale, urbana e culturale del nostro Paese per oltre sette decenni.
Nato a Santa Margherita Ligure il 10 ottobre 1930, ma da sempre legato a Venezia, città della sua infanzia, Berengo Gardin è stato l’autore di oltre due milioni di scatti, quasi tutti rigorosamente in bianco e nero. Non amava il colore: lo considerava una distrazione dalla sostanza delle cose. «La pellicola è più morbida, più plastica. Il digitale è freddo, metallico», diceva. E del Photoshop pensava che dovesse essere “abolito per legge”, almeno per il reportage.
Il suo lavoro raccontò l’Italia che cambia: quella dei manicomi prima della legge Basaglia, delle fabbriche, delle case popolari, dei matrimoni, delle stazioni, dei cantieri navali e degli sguardi dimenticati. Il suo celebre reportage Morire di classe (1975), realizzato con Carla Cerati nei manicomi italiani, resta una pietra miliare della fotografia di denuncia e contribuì a smuovere la coscienza pubblica. Quelle immagini crude, senza filtri, sono ancora oggi studiate nelle facoltà di psichiatria.
Berengo Gardin attraversò epoche e generazioni senza mai allontanarsi dal suo principio cardine: la fotografia come impegno civile, non come esercizio estetico. «Non ci tengo a passare per artista», ribadiva. Le sue prime pubblicazioni risalgono al 1954 su Il Mondo di Mario Pannunzio, testata con cui collaborò a lungo, prima di dedicarsi interamente al reportage sociale e alla documentazione architettonica.
Nel corso della sua carriera pubblicò oltre 200 libri fotografici, lavorato con testate italiane e internazionali, e collaborato con istituzioni come il Touring Club Italiano e l’Istituto Geografico De Agostini. È stato premiato nel 1963 dal World Press Photo e ricevette riconoscimenti in tutto il mondo: dal Leica Oskar Barnack Award al Premio Brassai, fino all’inserimento nelle collezioni permanenti del MoMA di New York, della Bibliothèque Nationale e del Musée de l’Elysée.
Nonostante la fama, fu uno spirito umile e coerente fino all’ultimo, rifiutando ogni concessione alla spettacolarizzazione della fotografia. La sua ultima autobiografia visiva, In parole povere, pubblicata nel 2020, è una sintesi perfetta della sua visione: schietta, asciutta, profondamente umana.
Gianni Berengo Gardin lascia un’eredità immensa non solo per il valore artistico del suo archivio, ma per la testimonianza viva di un’Italia osservata con onestà, empatia e senso critico. Era, per usare le parole di Italo Zannier, «il fotografo più ragguardevole del dopoguerra». E oggi, mentre il mondo della cultura e della fotografia lo piange, resta con noi il suo sguardo: un bianco e nero che ha saputo cogliere tutte le sfumature della verità.
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